Fino a oggi al Teatro Vittorio Emanuele di Messina

Il dramma del vedersi vivere e il gioco delle apparenze in “Pensaci, Giacomino” nell’interpretazione del grande Leo Gullotta

 

PENSACI, GIACOMINO

di Luigi Pirandello

Lettura drammaturgica e regia di Fabio Grossi.

Con Leo Gullotta, Liborio Natali, Rita Abela, Federica Bern, Gaia Lo Vecchio, Valentina Gristina, Marco Guglielmi, Valerio Santi, Sergio Mascherpa.

Scenografia e costumi di Angela Gallaro Goracci

Musiche: Germano Mazzocchetti con la voce di Claudia Portale

Luci: Umile Vainieri

Produzione: Teatro Stabile di Catania-Compagnia Enfi Teatro

Una ragazza rimasta incinta del suo giovane fidanzato si trova in serie difficoltà e non sa come portare avanti la gravidanza. il Professor Toti, docente nell’istituto in cui lei lavora come bidella,decide di aiutarla chiedendola in moglie e consentirle così di vivere della sua pensione il giorno in cui non sarà più in vita. Naturalmente la società civile, bigotta e perbenista, contrasterà duramente questa decisione anche a discapito della piccola creatura che nel frattempo è venuta al mondo. Ma la generosità e il buonsenso del professore alla fine avranno la meglio sui pregiudizi e la diffusa maldicenza, per un finale pieno di amara speranza, dove il giovane Giacomino, padre naturale del bambino, aiutato da Toti, prenderà coscienza del suo essere uomo e della sua paternità, e lascerà la casa della sorella in cui si sente prigioniero, per vivere la sua vita con il figlio e con la giovane madre.

Una delle più significative opere del repertorio pirandelliano ha incantato il pubblico messinese dal 14 dicembre scorso, regalando un’ora e venti di vera arte, quella resa possible dall’incontro tra il genio creativo della penna e la grandezza assoluta dell’interpretazione scenica. “Pensaci, Giacomino” di Luigi Pirandello, nella magistrale interpretazione di Leo Gullotta, diretto da Fabio Grossi, si è confermato ancora una volta un vero e proprio manifesto dell’anticonformismo, un’opera capace di far giungere allo spettatore sin dalle prime battute una denuncia sociale forte, che si snoda, come in un “rosario laico”, lungo la storia narrata aggiungendo via via nuovi tasselli al complesso mosaico delle relazioni umane.

Emergono così ipocrisie, pregiudizi e perbenismo di un mondo refrattario al cambiamento, che guarda al nuovo e al diverso con diffidenza, la stessa che ancora oggi, nel nuovo millennio della tecnologia, dà ai falsi miti un motivo di perenne attualità.

Così su una scenografia semplice, essenziale, ma molto significativa, dominata da sagome di visi con occhi variamente espressivi - metafora della potenza del giudizio altrui, ma anche, secondo la poetica pirandelliana, delle tante maschere che ciascuno può rappresentare -si muovono i personaggi di una vicenda altrettanto semplice quanto complessa nei significati impliciti, snocciolata in una trama in cui gli stereotipi, assimilati agli archetipi di junghiana memoria (il vecchio saggio, la madre, il padre, il bambino….), sembrano avere il sopravvento e guidare il gioco; e così sembra anche allo spettatore nelle prime battute della rappresentazione, per essere poi con garbo e maestria guidato verso un finale in cui, completamente immerso nei sentimenti rappresentati, vive sulla propria pelle il peso del pregiudizio come il suo superamento, la maldicenza assieme al trionfo del bene, fino ad un conclusivo sovvertimento di valori che sfida le apparenze a favore del trionfo dell’autenticità.

Così i personaggi deboli della storia, l’anziano professore, la ragazza madre, il bambino, si fanno portatori di un monito, un avvertimento chiaro, preciso, inconfutabile: un imperativo categorico che “ordina dall’interno” di abbracciare i valori della responsabilità sociale, dell’altruismo, della generosità e della “pietas”, nel senso più ampio del termine, quella capace di unire in un abbraccio chi cade e chi gli tende una mano per farlo rialzare. Una totale partecipazione del pubblico alla storia quindi, che solo i grandi mattatori sono capaci di realizzare, confermando potentemente che il teatro è sì finzione, gioco di prestigio; ma solo quando scopre la verità dietro la finzione può emozionare davvero.

L’applauso finale, copioso e ripetuto, come quello dei messinesi agli artisti, in particolare al grande Leo Gullotta, non è così solo omaggio alla capacità interpretativa, quanto gesto di riconoscenza per il dono di un finale liberatorio e di speranza, quello in cui ciascuno ha bisogno di credere, nella vorticosa dialettica del “vedersi vivere”.

                                                                                                      Marco Bonardelli